
Due dolori prodotti da un’Europa che manca di una politica dell’immigrazione comune all’altezza della situazione. Sono cadaveri che tuttavia pesano sulla coscienza non di Bruxelles, ma dei suoi 27 Stati membri. È loro la cocciuta scelta di non cedere su questa materia le competenze nazionali alle istituzioni UE. Nell’Europa che grazie a Schengen non ha frontiere al suo interno, le politiche di sorveglianza, ingresso e soggiorno dei nuovi arrivati rimangono, infatti, sostanzialmente in capo agli esecutivi dei diversi Paesi. Una contraddizione che da anni sotto la spinta delle emozioni tutti dicono di volere superare salvo poi dimenticarsene il prima possibile.
Parliamoci chiaro, se non si mette in atto una politica dell’immigrazione (e dell’asilo) comune in grado di distinguere chi ha diritto a essere aiutato da chi, invece, anche se non è un terrorista, merita di restare a casa sua, salta Schengen.
Resta ancora un debole filo di speranza legato ad Angela Merkel. Fino al prossimo dicembre sarà lei a guidare il Consiglio europeo chiamato ad approvare, chissà con quanta voglia, il nuovo Patto UE sull’immigrazione e l’asilo, presentato lo scorso settembre. La Cancelliera ci crede, la sua è anche una sfida personale con la storia.
Fu lei a segnare un confine chiaro tra emergenza umanitaria ed emergenza immigrazione. Fu lei a separare in maniera netta l’obbligo di accogliere i profughi che scappano da guerre (“nessun limite alla richieste di asilo in Germania” dichiarò) e la necessità di rimpatriare i falsi richiedenti asilo. Ma di lì a poco fu sempre lei a dover tornare sui suoi passi di fronte al fuoco amico di compagni di partito come il Ministro dell’Interno Horst Seehofer. Che preoccupato dall’avanzata dell’estrema destra anti-immigrati nella sua Baviera, spinse la Cancelliera a correggere in chiave più restrittiva, il suo aperturismo. Una sconfitta che forse è stata una lezione, consigliandola stavolta di non andare avanti da sola, ma di coinvolgere Emmanuel Macron.